Angeli e Demoni. Perchè l’Italia non esce dal fango?
Idee, lavoro, solidarietà, sostenibilità admin 11 novembre 2014Ho ancora impresse negli occhi le luci della protezione civile che elidono l’orizzonte della statale del Sempione. Ho dimenticato invece il viso e la voce del volontario che mi dice, in mezzo alla carreggiata, di andare in contromano fino alla prima uscita. Dopo tre ore d’inferno di strade interrotte e ponti chiusi, l’abbraccio di una ragazza e due notti ospite di una famiglia che non ho più visto. Il ritorno a casa, la ricerca di una pala e la corsa con i compagni nella vicina Moncalieri. Qualche giorno dopo, con gli amici di nuovo a dare una mano, questa volta al cugino di papà che aveva visto portarsi via il mulino in cui viveva e lavorava da una vita. Ognuno ha in mente le sue alluvioni, gli orrori e i disastri del suo tempo. L’alluvione del 2000 me la ricordo così. Diversa e uguale a tante altre tragedie più o meno famose.
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L’11 novembre a Roma si aprono gli ‘stati generali contro il dissesto idrogeologico’ lanciati da #Italiasicura, la struttura di missione contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche voluta dal governo. Lo dico subito: non ho pregiudizi sulla serietà di questo appuntamento. Anzi, potrebbe anche essere una vera occasione di studio e coordinamento degli attori coinvolti (protezione civile, ministeri, regioni, comuni, associazioni e volontariato di protezione civile), il che non fa mai male. A dire il vero potrei sbilanciarmi di più, sostenendo che sia stata una mossa giusta anche la creazione delle due strutture di missione sull’edilizia scolastica e sul dissesto idrogeologico. Purché le cifre ipotizzate qualche mese fa siano vere.
Per il dissesto, il ministero parla di 3.395 cantieri contro le alluvioni e per la messa in sicurezza dalle frane e di 183 opere per la depurazione degli scarichi urbani e il disinquinamento di fiumi e laghi; interventi in realtà già previsti da accordi di programma stato-regioni siglati nel 2009-2010 e da richieste successive in seguito a eventi meteo devastanti, ma di cui solo il 3,2% risulta concluso, mentre il 19% è in corso di esecuzione e il 78% fermo. Ripeto: il 78% è fermo. La cifra annunciata a luglio è di circa 4 miliardi di euro per tutte le regioni: 2,4 miliardi ricavabili da soldi non spesi dal 1998 per ridurre stati di emergenza territoriali, 1.6 miliardi di euro di bilancio stanziati con delibera Cipe nel 2012 per opere urgenti di fognature e depuratori nelle regioni del Sud, da concludere entro il 2015. Considerato che l’81,9% dei comuni hanno aree in dissesto idrogeologico e che, dal 1945, lo stato spende 3,5 miliardi l’anno in danni e risarcimenti da frane e alluvioni, stanziarne di più per la prevenzione potrebbe essere il primo passo utile.
Per capirci meglio: le regioni hanno stimato un fabbisogno di 40 miliardi di euro per la messa in sicurezza del territorio; 4 miliardi (l’anno, non una tantum) sarebbero un bel passo avanti rispetto ai 180 milioni per tre anni riservati a quel capitolo dalla Legge di stabilità e ai 110 milioni per la riduzione del rischio idrogeologico di cui si parla all’articolo 7 del decreto ‘Sblocca Italia’, che al contempo all’articolo 3 destina quattro miliardi di euro al sistema delle ‘Grandi opere’. Quattro miliardi potrebbero essere sufficienti, se fossero veri e non solo uno spot buono più che altro per un tweet. Ma il dubbio maggiore sorge rispetto al modello di sviluppo che fa da cornice a questi interventi (per ora solo annunciati). Scuola e messa in sicurezza del paese (beni culturali e territorio in primis) sono le due ricette per uscire dalla crisi? L’enunciazione di questo principio fa parte di un programma coerente o è una dichiarazione di intenti isolata, estemporanea? Insomma, di che cosa parliamo quando parliamo di istruzione e cura del territorio?
In tanti ormai diciamo che serve un “Green New Deal“, un piano di sviluppo e investimenti che, in tempi di crisi, serva a mettere in sicurezza il territorio, l’ambiente, l’edilizia scolastica, per evitare di pagare di nuovo un prezzo in termine di vite umane e di devastazione ambientale, creando al contempo lavoro. Questo è il progetto di riorganizzazione della società e uscita dalla recessione che dovrebbe dare l’impulso agli interventi di cui sopra (e che richiederebbe investimenti pubblici decisamente più robusti). Non vedo però come il decreto Sblocca Italia, che il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza ha definito l’intervento legislativo “più organicamente antiambientale” cui si sia mai assistito, possa farne parte (basti dire che toglie agli enti locali e alle regioni il potere di veto su trivellazioni e ricerca di petrolio in cambio del 30% in più di entrate derivanti dalle attività estrattive). Manca del tutto un ragionamento sulla riconversione ecologica da un lato e sulla creazione di posti di lavoro dall’altro, che sarebbe assai utile per uscire dall’illusione che per creare occupazione serva mettere mano al diritto del lavoro.
Un’ultima cosa. Trovo che gli inni a miseria e nobiltà, eroismo e sacrificio degli “angeli del fango” (un epiteto che a dire il vero ha una lunga storia nel nostro immaginario) oggi suonino un po’ sinistri. Ho l’impressione che l’assunzione in cielo sia il riflesso condizionato della politica nei confronti dei soggetti che intende rimuovere. Come mi diceva una cara amica, “commiserazione e beatificazione sono anche gesti anti-dinamici: servono a fissare, immobilizzare e depotenziare ciò che altrimenti si mostrerebbe come vita problematica, che chiede una soluzione, e mobile, che in certi casi potrebbe lottare per ottenerla”. I giovani sono da anni oggetto di evocazione, compassione, paternalismo nella retorica politica del nostro paese. Quasi mai se ne sente la viva voce all’interno del dibattito pubblico: dalle colonne dei giornali, dalla tribune televisive e politiche, dalle cattedre. Quasi sempre appaiono sulla bocca di altri come parola strumentale, immagine richiamata che serve a qualcosa. Molto spesso a ridurre diritti e tutele e tagliare pensioni, o addirittura a flessibilizzare ancora un po’ il mercato del lavoro in cui si dibattono.
Sarebbe bello che da domani il governo e il parlamento rivolgessero alle nuove generazioni una proposta di cambiamento (altro che Jobs act): “nei prossimi anni metteremo in sicurezza il paese, la nostra bellezza. Lo faremo cambiando le regole del patto di stabilità europeo, lo faremo per dare un futuro a questo continente e soprattutto pensando al fatto che questo programma potrà dare lavoro e speranza a tante generazioni”.
Marco Grimaldi
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tratto dal blog di Marco Grimaldi su Huffington Post.