Non siamo tutti Pasolini.

brevi, Idee, sinistra TAGS / paolini admin 10 dicembre 2015

Pier-Paolo-Pasolini-012

Innanzitutto, fatevi ringraziare.
Per l’invito e per lo spirito della serata.

Credo che nessuno di noi abbia voglia di unirsi alla melassa che ha accompagnato l’anniversario della scomparsa di Pasolini. Per questo, come potete immaginare, sono contento che l’apologia postuma di un Pasolini semplificato, appiattito, lucidato e ridotto a santino sia un comune avversario.

Un avversario che ha cambiato volto, si muove alla velocità di un tweet e sopravvive grazie alla scomparsa degli antistaminici contro l’allergia alla complessità. Pasolini lo aveva descritto nella sua prima forma consumistica, ma oggi il conformismo è lì alla portata di tutti. Anche nei luoghi di ricerca e di pensiero.

Per questo sono felice che l’invito sia arrivato da voi, perché credo di poter dire che l’Istituto Gramsci saprà continuare a combattere testardamente quella sottocultura che porta alla beatificazione in salsa buonista di tutta una storia fatta di conflitto, di posizioni partigiane e consapevoli, di una dialettica che insomma non si può trasformare in sintesi a posteriori.

Per questo mi hanno fatto tanta tristezza i ritratti di quei giornali che hanno voluto separare il racconto dal contesto. Che continuano a mistificare l’amore, si potrebbe dire “antropologico”, per i valori perduti della felicità arcaica e contadina, con il rimpianto per un’Italietta che Pasolini invece ha sempre avversato. Ma poi, ancor di più, quello che mi chiedo e vi chiedo è: si può separare il racconto etnografico dal contesto civile e politico in cui Pier Paolo Pasolini ha vissuto e di cui è stato fra i più grandi interpreti?

Io credo di no e fatemi dire fino in fondo ciò che penso: il racconto di Pier Paolo Pasolini vive e cresce nell’odio tanto verso il conformismo quanto verso il potere, anzi quei poteri concreti che per lui erano la cappa che grava su ogni pensiero di liberazione e di diritto alla felicità.

Non a caso l’onda d’urto censoria e repressiva che Pasolini ha subito é unica nella storia di questo Paese. Nessun artista e intellettuale può “vantare” una così lunga lista di istruttorie e udienze. Come ha scritto Stefano Rodotà (in AA.VV., Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, 1977), “Pasolini rimase ininterrottamente nelle mani dei giudici dal 1960 al 1975”, in “un solo processo” che lo trascinò decine di volte nelle aule di tribunale, mentre fuori la stampa lo insultava, lo irrideva, lo linciava. Perché? Per il suo “scandalo”. Perché era omosessuale e comunista. E perché criticava senza remore appunto tutti i poteri che vedeva all’opera nell’Italia di quegli anni, magistratura e polizia comprese. Pasolini disprezzava l’“Italietta” “piccolo-borghese, fascista, democristiana”, “provinciale e ai margini della storia”, e la sua cultura: un “umanesimo scolastico formale e volgare” (Scritti corsari, p. 51).

Proprio la riedizione di questa Italietta e una specie di umanesimo superficiale sembra si siano presi la loro rivincita su di lui, cercando di ‘togliergli le spine’, mentre gli scritti (tutta l’opera) di Pasolini sono di quelli – per usare le parole di Kafka – che “mordono e pungono” (gli unici che, secondo Kafka, bisognerebbe leggere).

Ma la più cattiva delle accuse è quella regolarmente mossa a Pasolini da quando lui è sottoterra, muto. Come ha scritto Wu Ming 1, una vera revanche dei reazionari. Il Mantra: “Pasolini difende i poliziotti proletari e accusa i figli di papà” è stato usato come randello contro ogni momento di dissenso. Eppure basta leggere intera la poesia “Il Pci ai giovani” o gli articoli di Pasolini sul disarmo della polizia, per rendersi conto di quanto fuorviante sia quella strumentalizzazione. Pasolini scrive che gli studenti – “quei mille o duemila giovani miei fratelli” – sono comunque “dalla parte della ragione” e la polizia “dalla parte del torto”. Ma poiché la vera rivoluzione non la faranno mai gli studenti, figli di borghesi cui spetta al massimo una “guerra civile” generazionale in seno alla borghesia, ma gli operai, è là che dovranno trovarsi gli studenti, se vogliono essere rivoluzionari: tra gli operai. Ma soprattutto, dice Pasolini, gli studenti devono riprendere in mano “l’unico strumento davvero pericoloso” (il comunismo) e li invita a impadronirsi del Pci, finito nelle mani di “signori in modesto doppiopetto”, e aiutare il partito a “distruggere, intanto, ciò che di borghese ha in sé”.
Ecco quindi qual era la sua posizione. Non importa se ci convince o no, ma se dobbiamo citarla facciamolo nella sua completezza.

Un’ultima cosa, proprio perché sono qui.

Ci si interroga molto e ancora su quale debba essere la funzione degli intellettuali in seno a una società. Ebbene, Pasolini, nel celeberrimo articolo del 1974 sul Corriere della Sera (Cos’è questo golpe?), scrive con amarezza e senso del paradosso che “il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia” e che è la politica (la “borghesia italiana” ma, in altro modo, anche il PCI) a tenere separate queste due funzioni, anteponendo nella pratica altre logiche al coraggio della verità e lasciando l’intellettuale impotente, disinformato, deferendogli un mandato “falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici” e iterare un “modo codificato di intervento”.
Non so se questa separazione sia ancora vera, per molti versi temo di sì. Di sicuro credo ancora che intellettuali e istituti culturali come il vostro possano essere un continuo pungolo per la politica solo se evitano le pratiche, come si dice ai giorni nostri, “embedded”.

Per contro, noi che facciamo quotidianamente politica dovremo cercare il più possibile di non perdere di vista le verità politiche che conosciamo, sopraffatti da altre logiche, da forme di fedeltà, pigrizia intellettuale, interesse, conservatorismo.

Buon lavoro compagne e compagni.

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