Grimaldi: sulla strada per ridare credibilità alla Regione e speranza alla nostra comunità.
diritti, Idee, lavoro, mobilità, Regione, sanità, solidarietà, sostenibilità admin 8 luglio 2014Qui sotto la versione integrale delle nostre linee programmatiche. Un primo passo. Il mio primo intervento in aula da capogruppo regionale di Sinistra Ecologia e Libertà.
Abbiamo scelto di partire dalla generazione 0: dagli studenti universitari capaci e meritevoli ma privi di mezzi cui non è stato garantito il diritto allo studio, cui il Presidente si è impegnato a restituire le borse, ai ragazzi delle scuole che hanno bisogno di un servizio pubblico che torni a essere ascensore sociale, ai giovani espulsi dal mercato del lavoro per i quali chiediamo innanzitutto forme di sostegno al reddito anche a livello regionale.
Per loro, per tutti coloro che non hanno, non trovano o hanno perso il lavoro, per rilanciare lo sviluppo del Piemonte sotto il segno della sostenibilità, della tutela del welfare, dei beni comuni, della collettività, dell’ambiente, abbiamo proposto un Green New Deal piemontese che sappia sfruttare l’occasione della strategia Europa 2020 per creare occupazione investendo sull’edilizia pubblica, sul risparmio energetico, sulla messa in sicurezza del territorio, sulla bonifica dell’ambiente, sulla tutela dei beni naturali e culturali, sull’agricoltura a filiera corta. Abbiamo ribadito che alle grandi opere costose preferiamo l’investimento nella manutenzione e nel miglioramento della rete ferroviaria piemontese e del trasporto pubblico locale, nonché della promozione di nuove forme di mobilità. Abbiamo chiesto la massima attenzione nei confronti delle infiltrazioni mafiose sul nostro territorio: sugli appalti, sulla gestione dei rifiuti, sul movimento terra e sulle cave. Saranno questi i punti su cui ci proponiamo di essere, in questo consiglio regionale, una forza capace di fare la differenza e non solo di segnare una differenza.
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Caro Presidente, gentili colleghi,
un nuovo inizio è davanti a noi. Siamo tutti chiamati a restituire credibilità a un’istituzione e ridare fiducia e speranza a un’intera comunità.
In questi anni, dall’opposizione, siamo stati al fianco dei cittadini piemontesi più giovani, di tanti studenti universitari, nei giorni in cui protestavamo contro il taglio delle borse di studio. Abbiamo espresso loro solidarietà anche quando pacificamente occupavano la mensa di via Principe Amedeo per segnalare all’attenzione dell’opinione pubblica il progressivo smantellamento del diritto allo studio perseguito dalla Giunta Cota.
Fino al 2010/11, il Piemonte è stata, insieme al Trentino Alto Adige, l’unica Regione ad avere sempre erogato la borsa a tutti gli idonei. Oggi la nostra ex regione virtuosa è piombata al 18° posto, sotto la Sardegna e appena sopra la Calabria e la Campania.
Conosciamo purtroppo i numeri di questa mattanza chiamata “delitto allo studio”: nel 2011/12: 3.657 borsisti su 11.872 idonei, nel 2012/13: 5.025 borsisti su 10.039 idonei.
Chi ha governato in questi anni in Piemonte è il solo responsabile di questo disastro che ha bloccato al piano terra dell’ascensore sociale quei ragazzi capaci e meritevoli anche se privi di mezzi.
Quello che più mi dispiace della retorica conservatrice in salsa padana è che ha fatto sentire i ragazzi fuori sede figli indesiderati, non comprendendo che il danno lo si fa a tutti: a partire dai ragazzi nati e cresciuti in Piemonte.
È una consapevolezza che tutti certamente condividiamo: una comunità che va dall’asilo all’università assieme rischia di finire nelle strade cieche delle comunità chiuse, quelle che non hanno più niente da dirsi o che si dicono sempre le stesse cose.
Ecco, vorremmo inaugurare il nostro lavoro nel nuovo Consiglio Regionale a partire da loro, dai più giovani, non solo con il reintegro pieno delle borse di studio per gli idonei, ma anche intervenendo da subito per fermare l’emorragia di chi va via perché non trova opportunità, e contemporaneamente agendo sulla leva dell’attrattività.
Sì, questo deve essere il nostro obiettivo: vogliamo tornare a essere una comunità aperta che accoglie studenti da tutta Italia e da tutto il mondo, non facendo perdere agli atenei piemontesi ulteriori posizioni nei ranking nazionali ed europei.
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Poi c’è la scuola.
La rilevazione Censis del 26 giugno scorso associa purtroppo a questa istituzione un sentimento di sfiducia crescente e diffusa.
La scuola è percepita come un’istituzione in decadenza, i suoi operatori hanno perduto prestigio; il suo fine, ovvero la sua capacità di garantire l’accesso generalizzato al sapere e, quindi, di essere ‘ascensore sociale’, sembra quasi del tutto dimenticato.
Letto semplicemente così il risultato della rilevazione è una fotografia impietosa che consente però di fare luce su alcune mistificazioni indotte con perizia nell’immaginario collettivo e nell’opinione pubblica. In più esistono i ‘pixel’, quelli che singolarmente non si fanno prendere dallo sconforto, i tanti operatori della scuola convinti del loro impegno quotidiano, che tutti i giorni investono nella capacità di questa istituzione di essere strumento di emancipazione.
Del resto come non tener conto del fatto che anni di prelievi forzosi e continui avrebbero messo a dura prova anche il miglior sistema? Che anni di delegittimazione mediatica continuata avrebbero distrutto la migliore reputazione? Che anni di riforme del mercato del lavoro in nome del mantra della flessibilità senza investimenti pubblici non avrebbero creato un posto di lavoro in più, tantomeno di qualità, in nessun luogo?
Poiché abbiamo memoria di quanto è successo nel nostro Paese nel corso degli ultimi anni riteniamo opportuno chiamare in causa, almeno per completezza, i veri protagonisti di questa condizione: le politiche scolastiche degli ultimi anni e l’incapacità di declinare le politiche del lavoro se non nella versione più scadente e dequalificata.
L’unica riforma di sistema, quella dell’autonomia scolastica, è stata scientificamente sabotata.
Benché l’Europa richieda da tempo di investire sull’istruzione prescolare (0-3), e a oggi la domanda sia più elevata dell’offerta, i servizi per l’infanzia sono ancora ‘a domanda individuale’. Inoltre secondo il Censis che cita il monitoraggio Miur 2010-11 emergono criticità rilevanti dovute da un lato alla “troppa diffusa esternalizzazione del servizio a soggetti privati da parte dei soggetti pubblici o paritari che ne sono titolari” e dall’altro al “mancato rispetto del rapporto 1 a 10 tra educatore e bambini, che mette a rischio, al solo scopo di ammortizzare i costi, la funzione educativa di questo segmento”.
Benché la scuola dell’infanzia sia fondamentale, non è ancora obbligatorio neanche l’ultimo anno che ne garantirebbe la generalizzazione. Gli interventi del governo nazionale del 2008 e del 2009 hanno pesantemente modificato, in conseguenza di meri tagli lineari, la fisionomia della scuola primaria che ha visto scomparire l’organizzazione modulare e il tempo pieno, esperienze di avanguardia guardate con interesse in Europa.
Anche i quadri orario e dunque l’offerta formativa curriculare della scuola secondaria di primo e secondo grado sono stati ridotti senza altro criterio che non fosse il risparmio.
Il sovraffollamento delle classi è stata la prima visibile conseguenza di tutta questa operazione. Tutto il resto è semplicemente intuibile. Come se non bastasse il fondo per l’autonomia è stato letteralmente sottratto alle scuole: quindi alla minore offerta curriculare si è aggiunta la sottrazione dei fondi per l’ampliamento dell’offerta formativa, cuore dell’autonomia scolastica.
Mi chiedo cos’altro avrebbe dovuto subire questa Istituzione Pubblica per essere del tutto annientata. Come potrebbe una scuola così sfigurata nella sua fisionomia più autentica, quella che ha origine negli artt. 2, 3, 33, 34 della Costituzione, svolgere ancora al meglio il suo ruolo di emancipazione?
Come potrebbe garantire a ognuno, secondo le proprie capacità, di realizzare compiutamente la sua personalità come individuo e nella società, indipendentemente dalle sue condizioni di partenza: dalla famiglia di nascita, dal quartiere della città, dalla collocazione geografica a Nord o a Sud del paese?
Come può questa scuola e come potrebbe semplicemente un titolo di studio essere un viatico verso un buon lavoro se, a partire dalla flessibilità per finire al Jobs Act, è la cultura del lavoro a essere stata archiviata nel nostro Paese?
La più naturale delle conseguenze non può che essere quella più ingiusta. Infatti recita il Rapporto Censis: “Il raggiungimento di alti livelli di istruzione ha avuto ed ancora ha un ruolo ambivalente nel favorire il processo di promozione sociale in quanto non sufficiente di per sé ma condizionato fortemente dalla posizione sociale di origine e dalla strutturazione del mercato del lavoro”.
Noi pensiamo che la scuola non possa essere più un terreno in cui ci si esercita a contenere la spesa pubblica in nome dell’austerità; che non possa più essere un terreno di redistribuzione una tantum; che abbia bisogno di investimenti strutturali che si innestino su un’idea seria, costruita in modo condiviso e partecipato, di democratizzazione dell’accesso ai saperi nonché di una fruizione di qualità degli stessi.
Considerando che sarà assolutamente necessario aumentare le risorse complessive impegnate per la scuola, chiediamo che la legge 28 sia migliorata privilegiando l’aiuto alle scuole pubbliche dello Stato e degli Enti locali, frequentate, ricordiamo, dal 95 % circa degli studenti in Piemonte, per migliorarne la qualità dei servizi, il trasporto degli studenti, l’offerta formativa, il rimborso del costo dei libri o il loro prestito d’uso.
È dunque di grande importanza una revisione della legge 28 e il superamento della doppia graduatoria oggi vigente, che ha dimostrato di poter essere facilmente usata da chi ha preferito finanziare in modo principale la graduatoria di coloro che frequentano le scuole paritarie private.
Vi pare normale, ancor di più in un momento di crisi come questo, destinare risorse alla cosiddetta “libertà di scelta” a scapito del diritto allo studio? Non sarebbe più normale dire che noi diamo assegni di studio e rimborsi per libri e trasporti a chi ha un Isee familiare basso, e starà poi alla famiglia decidere in quale istituto iscrivere il figlio? Ma perché dovremmo dare più risorse a chi ha deciso di iscrivere i propri figli alle scuole private?
Caro Presidente, cari colleghi e colleghe, il senso è semplice: ingiusto il sistema dell’istruzione pubblica che non riesce a promuovere i capaci e meritevoli anche se privi di mezzi, ingiusto il mercato del lavoro che comunque non sa valorizzare le competenze acquisite dai giovani.
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Come avrete capito vogliamo ripartire dalla generazione 0 per arginare da subito un’altra piaga che mina le fondamenta della nostra società: la disoccupazione giovanile.
L’Ires Piemonte in un suo recente lavoro ci ricorda che “la crisi economica avviatasi alla fine dello scorso decennio, con i suoi riflessi negativi sull’occupazione, sembra aver agito come un fattore esplosivo rispetto a problemi che da tempo condizionano le giovani generazioni nel loro rapporto con il lavoro. Alla radice, due apparenti paradossi: meno numerosi diventano i giovani, più ridondanti risultano sul mercato del lavoro; più si alza la scolarizzazione delle nuove generazioni, meno facile sembra diventare il loro rapporto con il lavoro. Per uscire da questa situazione è necessario comprendere meglio le cause che la generano e i meccanismi che la alimentano. La ricerca, a livello internazionale, sta dando importanti contributi che è opportuno evidenziare e discutere.”
Non è solo colpa della crisi: il resto lo fanno, ad esempio, la proroga delle uscite dal lavoro e il conseguente aumento degli occupati anziani, lo svuotamento delle posizioni lavorative intermedie: lavoro autonomo, impiegatizio, da operai qualificati. Quindi sono le politiche sulle pensioni, sul lavoro, sugli ammortizzatori sociali e sulla fiscalità a incidere pesantemente.
Sia chiaro: questo è un tema di rilievo nazionale e, anzi, che investe tutto il mondo occidentale. Non a caso, a quanto pare la cosiddetta “questione giovanile” è ormai entrata stabilmente sia nel dibattito pubblico che nelle agende istituzionali di governo. Non credo si vada molto più in là di evocazioni e proclami, certo è che gli analisti e gli istituti di ricerca si sono cimentati nella lettura ex post dell’escalation della precarietà.
Queste considerazioni ci portano a un dato che pare nel breve periodo incontrovertibile: le opportunità di occupazione tendono a diminuire proprio in corrispondenza dei livelli di “qualificazione” appena raggiunti dalla maggior parte dei giovani.
Ma perché l’Italia e il Piemonte sono piombate in questa contraddizione? L’Ocse ci fa capire che lo studio e il lavoro in Italia sembrano aver preso strade divergenti. Prevalentemente la generazione 0 conferma una dicotomia assai pericolosa: “se si va a scuola o all’università, non si lavora” e “se si va a lavorare prima, non si hanno più opportunità per continuare o per tornare a studiare”.
Il modello che l’OCSE ha definito “first study then work” è risultato meno efficace di quello “study while working” per favorire l’occupazione dei giovani e per proteggerli dalla crisi.
Vogliamo affrontare con radicalità il tema dell’occupazione giovanile.
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Sappiamo tutti quanto è stata drammatica la recessione in Piemonte: il bilancio del 2013 è impietoso. Stiamo parlando di una regione in cui tra il 2007 e il 2010 (sempre dati Ires) la crisi economica si è portata via il 10,5% delle industrie, investendo tutti i tipi di azienda: quelle con un solo addetto, calate del 9%, le medie, il cui numero è sceso del 12%, e le imprese con oltre 250 addetti, ridotte del 12,2%. La perdita effettiva di aziende, al netto cioè dei cambi di settore, è di 7.858 realtà. Di conseguenza, a parte l’agroalimentare, tutte le attività produttive hanno visto scendere la quantità dei lavoratori: del 21,5% per i prodotti in metallo, del 21,2% per il settore legno, carta e stampa, del 18% nel tessile, del 17% nelle apparecchiature elettroniche. La flessione fatta segnare dai ricavi dell’industria piemontese nell’arco del quinquennio 2007-2011 è stata del 2,4%.
Nell’anno appena trascorso (dati dell’Osservatorio sul Mercato del Lavoro della Regione Piemonte, 2013) le ricadute del fenomeno recessivo si sono abbattute con forza su un mercato del lavoro provato da una congiuntura negativa così prolungata e in cui, in apparenza, va cedendo il baluardo eretto a difesa dell’occupazione, basato sul ricorso massiccio alla Cassa Integrazione. Dati recentissimi ci dicono che alla data del 30 giugno la cigs (Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria) in Piemonte riguardava 484 aziende/unità produttive con 32.995 lavoratori coinvolti; la cassa in deroga 28mila lavoratori; difficile fare una stima attendibile sui lavoratori coinvolti dalla ordinaria, ma i dati dell’Inps al dicembre 2013 parlano 52.495.392 ore di cassa: meno del 2012, del 2010 e del 2009. I nuovi iscritti in mobilità a seguito di licenziamento collettivo nei primi 3 mesi del 2014 risultano in calo rispetto al 2013: 3305 nel 2014 contro 3847 del 2013. Gli avviamenti, sempre riferiti al 1° trimestre, in valori assoluti sono in aumento: 135.900 del 2014 contro 132.800 del 2013, ma sono in calo i tempi indeterminati: 28.900 nel 2014 contro i 31.500 del 2013. Laddove il ricorso alla cassa integrazione diminuisce, emerge soprattutto la costante erosione della consistenza occupazionale: in pratica, inizia a scarseggiare la “materia prima”, ovvero ci sono meno occupati da porre in cig e quelli che ci sono lavorano con modalità sempre più precarie e discontinue tali per cui i periodi di non lavoro semplicemente non sono coperti da nulla.
La disoccupazione continua a crescere, raggiungendo fra i giovani livelli altissimi, con un tasso relativo che supera la soglia del 40%, ai limiti della sostenibilità sociale. In un solo anno gli occupati in Piemonte sono diminuiti di 45mila unità e la disoccupazione è aumentata di 26mila unità, principalmente ‘grazie’ ai giovani sotto i 34 anni: il 70% del flusso aggiuntivo. A fronte di questi dati complessivi infatti, il tasso relativo di disoccupazione dei soggetti fra i 15 e i 29 anni tra il 2008 e il 2012 è aumentato dal 10,4% al 20,6% e quello di occupazione è sceso dal 48,2% al 40,9%. Non solo: come si è detto stiamo parlando della generazione meno numerosa e più scolarizzata nella storia del Piemonte (nel 1981 1.250.000 i giovani tra i 15 e i 34 di cui metà non proseguiva gli studi oltre le medie inferiori, oggi 900mila di cui il 90% scolarizzati e il 40% iscritti all’università).
Questo quadro ci dice che è sempre più indispensabile una “riforma degli ammortizzatori sociali a carattere inclusivo e universale” che estenda il sostegno al reddito anche ai precari e a tutte le tipologie contrattuali subordinate e parasubordinate.
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La nostra proposta di un “Green New Deal” piemontese va incontro proprio a questa esigenza: creare posti di lavoro dove le competenze dei singoli vengano valorizzate, tramite investimenti mirati che producano allo stesso tempo benefici per tutta la collettività: attraverso la messa in sicurezza delle scuole, del territorio, politiche di tutela dell’ambiente e del paesaggio, interventi pubblici che migliorino la qualità della vita delle persone.
Come abbiamo scritto nella proposta di legge presentata a livello nazionale, le politiche di austerità hanno portato a una recessione pesante nei confronti della quale oggi i governi cercano di porre un argine con singoli e modesti interventi a favore della crescita. Ma l’impostazione è sbagliata: la crescita non può essere un totem che produce occupazione in un quadro immutato di politiche economiche restrittive, senza tener conto del fatto che le imprese aumentano la produzione, aumentando conseguentemente l’occupazione, solo se cresce la domanda o se si prevede che possa crescere. Per questo può e deve essere lo Stato a progettare e realizzare un programma straordinario e sperimentale di interventi pubblici.
Ma anche a livello regionale possiamo impostare il nostro lavoro politico secondo questo paradigma.
La strategia Europa 2020 per i Fondi Strutturali 2014/2020 è un’opportunità per progettare investimenti mirati in innovazione e sviluppo, riqualificazione del territorio, turismo e agricoltura sostenibili e produzioni con alti tassi occupazionali.
Bisogna orientare la crescita verso un nuovo modello di sviluppo: rilanciare investimenti che oltre a mirare alla ripresa ne cambino la natura e struttura a partire dalla sostenibilità ambientale e dal riequilibrio verso la domanda interna e i consumi collettivi.
Solo così potremo rispondere al dramma della disoccupazione tempestivamente, senza attendere un futuribile ma quanto mai dubbio nuovo boom economico che impiegherebbe non meno di quindici anni per riportare l’occupazione a livelli fisiologici.
Per questo sono necessari un piano straordinario di investimenti pubblici e privati, con uno sforzo anticiclico e con una parte dedicata del bilancio regionale.
I piani di intervento possono essere tanti:
1. La protezione e la messa in sicurezza del territorio.
2. La bonifica e la riqualificazione ambientale di aree urbane, rurali, produttive, industriali e militari. Si pensi, qui in Piemonte, al tema ancora non risolto dello smaltimento delle scorie radioattive. Come tutti ben sapete, la nostra regione ospita sul proprio territorio tre siti nucleari presso i quali hanno sede quattro impianti rappresentativi di tutto il ciclo del combustibile nucleare: l’impianto ex FNSO. G.I.N. di Bosco Marengo, l’impianto EUREX-SO.G.I.N. di Saluggia, il Deposito Avogadro di Saluggia e la Centrale Nucleare “E. Fermi”- SO.G.I.N. di Trino. Pur avendo cessato la produzione, presso gli impianti sono in atto alcune attività legate alla loro gestione in sicurezza e alle prime operazioni di decommissioning o propedeutiche a esso. Attività che producono un impatto ambientale di tipo radiologico che, seppure non comparabile con quello relativo alla fase di esercizio, non può essere trascurato e in particolare dipende dallo scarico di effluenti radioattivi liquidi e aeriformi e da possibili eventi anomali o incidentali.
In Piemonte è stoccato il 69% dei rifiuti radioattivi presenti sul territorio nazionale. Non solo: nelle piscine di stoccaggio della centrale “E. Fermi” di Trino e del Deposito Avogadro di Saluggia è ancora presente del combustibile nucleare irraggiato. Complessivamente in Piemonte fino all’anno 2008 era presente il 19% del quantitativo di combustibile nucleare irraggiato stoccato sul territorio nazionale. Denuclearizzare il Piemonte è la più importante sfida ambientale che abbiamo davanti. Salviamo la pianura padana prima che “la tempesta perfetta” ce la porti via rendendola per un millennio un deserto post atomico.
3. Il recupero, la ristrutturazione e la messa in sicurezza degli edifici scolastici pubblici, con priorità per quelli esposti al rischio sismico e dell’amianto. Anche in questo caso il problema ci è tristemente noto. La Regione Piemonte si è dotata di un “Piano regionale di protezione dell’ambiente, di decontaminazione, di smaltimento e di bonifica ai fini della difesa dai pericoli derivanti dall’amianto” e una Legge Regionale (n. 30 del 14/10/2008: Norme per la tutela della salute, il risanamento dell’ambiente, la bonifica e lo smaltimento dell’amianto). Ma l’opera di censimento, come quella di bonifica, è lunga, graduale e complessa: riguarda i materiali contenenti amianto nelle scuole, pubbliche e private, ma non solo: anche nelle strutture sanitarie, negli edifici comunali, nelle case di riposo, nei capannoni dove si svolgono attività industriali, attività del terziario, attività agricole e i siti dismessi.
4. La ristrutturazione degli ospedali pubblici al fine di rendere gli spazi e le strutture interne funzionali alle attuali tecnologie mediche e alle mutate pratiche terapeutiche (un obiettivo che la ‘riorganizzazione’ del sistema sanitario di Cota non solo ha mancato, ma ha allontanato drasticamente dal nostro orizzonte).
5. Il rafforzamento dei servizi socio-educativi per la prima infanzia anche tramite la messa in sicurezza degli asili nido pubblici esistenti o la ristrutturazione di edifici pubblici da adibire ad asilo nido.
6. L’incremento, il recupero e la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico destinato o da destinare a prima abitazione e a iniziative di coabitazione e di condivisione del lavoro al fine di garantire su tutto il territorio nazionale i livelli minimi essenziali di fabbisogno abitativo per il pieno sviluppo della persona umana. Sappiamo quali livelli di drammaticità abbia raggiunto l’emergenza casa nel nostro territorio.
7. L’incremento dell’efficienza e della prestazione energetica degli edifici pubblici e la riduzione del consumo di energia dei medesimi edifici.
8. Il recupero e la valorizzazione del patrimonio storico, architettonico, museale e archeologico.
9. Il recupero di terreni pubblici incolti o abbandonati, nel rispetto degli ecosistemi esistenti, il ripristino della flora e della fauna tipiche, la valorizzazione e l’incremento del patrimonio boschivo, la prevenzione e la riduzione dell’inquinamento e la valorizzazione dei fiumi, delle aree paludose, dei laghi attraverso il ripristino dell’ecosistema. In generale la tutela del territorio e del paesaggio attraverso politiche di “consumo zero” del suolo.
10. Lo sviluppo di un’agricoltura di qualità, tramite il potenziamento del consumo e dell’uso di prodotti biologici con opportuni incentivi, quali, ad esempio, delle linee guida per l’impiego dei prodotti biologici nelle mense pubbliche.
11. Una corretta gestione del ciclo dei rifiuti, verso l’obiettivo “rifiuti zero”, attraverso la raccolta differenziata attuata con il sistema domiciliare, la filiera del riciclo e recupero e il ricorso alla “fabbrica dei materiali”; l’evoluzione del trattamento meccanico-biologico, per la parte residuale, con trattamento a freddo, che eviterebbe la costruzione di un secondo inceneritore nella regione.
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Poiché ho accennato agli ospedali pubblici, vorrei ora approfondire il tema della Sanità nel suo complesso.
Il diritto costituzionale alla salute è stato messo a dura prova dalla Giunta Cota.
La sanità è un sistema di protezione sociale ad accesso universale su cui, con tagli lineari, è facile nel breve periodo ridurre la spesa, ma occorre tener conto delle conseguenze. I danni prodotti nella nostra regione da queste politiche sono evidenti. Bisogna smettere di associare la sanità ai costi e abbinarla, invece, ai risparmi: di sofferenza, di emarginazione, di inabilità, di solitudine. Inoltre non si deve dimenticare che la sanità è un importante settore che impatta positivamente sull’economia e che può essere uno strumento di politiche anticicliche nei momenti di depressione.
Partendo dalla centralità della persona e dai percorsi da garantire nella prevenzione, nella cura e nella stabilizzazione, è necessario:
- investire sulla sanità di prossimità e di continuità, contrastando i ricoveri inappropriati, valorizzando le professioni sociosanitarie, promuovendo le reti locali di sanità e assistenza;
- dare stabilità (a partire dal bilancio 2015) agli assegni di cura e/o rivedere la politica tariffaria dei non autosufficienti (che ora scarica sulle famiglie gli oneri degli extra LEA aboliti);
- promuovere, attraverso i Piani di salute, concrete iniziative di promozione degli stili di vita in collaborazione con la società civile: camminate con le società sportive, ballo con le Soms, piatti della salute con la ristorazione, luoghi liberi da fumo, distributori di cibo salutare, ecc. in modo che l’attenzione verso la salute arrivi in tutti gli angoli della regione.
- garantire una sanità attenta al genere, che tuteli e non ostacoli la libertà di scelta delle donne in primis in tema di maternità e sessualità, garantendo nei luoghi preposti un’informazione accessibile, completa e laica, e in tutti i presidi ospedalieri le strutture e il personale adeguati per affrontare i diversi interventi cui le donne scelgono di sottoporsi nel pieno esercizio dei propri diritti;
evitare qualsiasi vendita delle strutture del patrimonio sanitario.
Per realizzare concretamente queste proposte, occorre:
- un piano di rientro rinegoziato, con la rinuncia all’idea di fare in fretta tagli e cambiamenti dietro il paravento del piano di rientro;
- un trasparente sistema di valutazione (fatto d’ indicatori numerici) che consenta di stabilire (ex ante) dove si vuole arrivare e di giudicare (ex post) il risultato raggiunto, anche per farne derivare un’opportuna equità nella distribuzione delle risorse;
informatizzare e rendere la sanità regionale una “casa di vetro”, che tutti i cittadini possano controllare;
lottare contro le infiltrazioni e gli interessi privatistici che si annidano in tanti appalti.
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Dobbiamo fare nostra la prospettiva che osserva e valuta il territorio nel suo insieme in termini di Servizi Ecosistemici. La Regione Piemonte è entrata nel comitato degli utenti del progetto Life+ MGN in cui si svolgerà il primo confronto a livello nazionale sulla valutazione dei Servizi Ecosistemici, ovvero – secondo la definizione del progetto Millenium Ecosystem Assessment sponsorizzato dall’ONU – “i benefici che le persone ottengono dall’ecosistema”, in termini di beni pubblici naturali alla base di molti dei servizi fondamentali da cui dipendono le nostre società: disponibilità di acqua potabile, fertilità e limitazione dell’erosione del suolo, approvvigionamento di cibo, assorbimento di carbonio, impollinazione delle colture, approvvigionamento e conservazione delle risorse idriche. Questi servizi ecosistemici si possono distinguere in quattro grandi categorie: supporto alla vita (ciclo dei nutrienti, formazione del suolo e produzione primaria); approvvigionamento (la produzione di cibo, acqua potabile, materiali o combustibile); regolazione (regolazione del clima e delle maree, depurazione dell’acqua, impollinazione e controllo delle infestazioni); valori culturali (fra cui quelli estetici, spirituali, educativi e ricreativi). Conoscere il valore economico totale di tali risorse e dei beni ambientali è fondamentale per verificare la razionalità delle scelte di sviluppo, per dare significato alle politiche di tutela dell’ambiente e individuare le aree più fragili dove il cambiamento e più probabile. La valutazione dei servizi ecosistemici potrà costituire la base per una revisione dei termini economici con cui considerare il territorio e i suoi capitali attraverso una pianificazione territoriale più consapevole del significato dei processi ecologici e più orientata verso una sostenibilità concreta.
L’inquinamento della qualità dell’aria, nonostante una situazione stabile per quanto riguarda monossido di carbonio, biossido di zolfo, metalli e benzene i cui livelli di concentrazione si mantengono inferiori ai limiti previsti dalla normativa vigente, resta alto a causa di biossido di azoto, ozono e particolato PM10.
Non possiamo sperare che sia l’aumento delle precipitazioni, come è successo questo inverno, a migliore la qualità dell’aria che respiriamo.
L’ossido di azoto e il PM10 in particolare derivano dal trasporto su strada, che dobbiamo senz’altro proporci di ridurre anche oltre la previsione di riduzione del 27% per il 2015 rispetto all’anno 2008, comprensiva sia degli effetti di evoluzione tecnologica legata all’introduzione delle nuove eurocategorie sia di quelli derivanti dall’applicazione delle misure di Piano Regionale.
Le emissioni di gas serra sono ancora la principale causa dei cambiamenti climatici in atto. Occorre lavorare per la stabilizzazione delle concentrazioni atmosferiche dei gas serra a un livello tale da prevenire pericolose interferenze delle attività umane con il sistema climatico. Si può fare attraverso incentivi e tassazioni (ad es. la “carbon tax”); regolamentazione del mercato tramite l’introduzione di obblighi (ad es. standard minimi e certificazione energetica per gli edifici) e divieti; investimenti in Ricerca e Sviluppo (per realizzare innovazioni tecnologiche e abbattere i costi delle tecnologie esistenti); pianificazione territoriale, in modo da integrare le politiche del territorio con le quelle per il clima (mitigazione e adattamento).
Così dobbiamo prenderci cura delle nostre risorse idriche: dei nostri tanti fiumi 104 (circa il 54%) si trovano in stato Buono o Elevato, conforme all’obiettivo di Qualità previsto dalla WFD, ma i restanti 89 presentano uno Stato Ecologico inferiore al Buono. Dei nostri 12 laghi, 5 si trovano in stato Buono, ma ben 7 presentano uno Stato Ecologico inferiore al Buono.
Abbiamo un imponente acquedotto: utilizziamo a scopo idropotabile più di 6.500 punti di approvvigionamento, composti in maggior parte da pozzi e sorgenti e, in misura minore, da prese di acqua superficiale; il grado di copertura territoriale del servizio si può dire pari al 100% e assicura una dotazione idrica pro-capite superiore ai 250 litri/ab/ giorno. Anche se la forte prevalenza di utilizzo di acque sotterranee per l’approvvigionamento idropotabile garantisce un’elevata qualità della risorsa e spesso non richiede particolari processi per la sua potabilizzazione, è comunque necessario mantenere alta l’attenzione, per tutelare la qualità dell’acqua, le fonti di prelievo attraverso un uso razionale delle stesse e l’individuazione di specifiche aree di salvaguardia.
Per i parametri chimici i casi di non conformità rappresentano l’1,6% dei campioni totali e se per la maggior parte riguardano parametri indicatori della qualità organolettica dell’acqua innocui per la salute dei consumatori, in alcuni pozzi, principalmente nei territori agricoli di Vercelli e Novara, si sono riscontrati residui di prodotti fitosanitari, quali bentazone oxadiazon, esazinone, atrazina e suoi metaboliti, non più evidenziabili dopo i trattamenti di potabilizzazione e in alcuni pozzi delle zone industriali del torinese, biellese e novarese si sono riscontrati invece valori oltre i limiti per solventi organoalogenati (tetracloroetilene e tricloroetilene), riconducibili a inquinamenti anche pregressi.
Criticità importanti continuano ad essere attribuite al comparto agricolo-zootecnico in relazione allo stato delle acque superficiali e sotterranee, tenuto costantemente sotto osservazione dal monitoraggio ambientale. Nitrati e prodotti fitosanitari sono i principali contaminanti.
I principali laghi naturali piemontesi sono generalmente specchi d’acqua di bassa quota e scarso ricambio idrico e proprio per questo ecosistemi particolarmente delicati: per essi sono tuttora una importante fonte di pressione gli agglomerati residenziali e produttivi e i relativi sistemi fognari presenti nel bacino di drenaggio, i quali costituiscono ancora una causa di deterioramento dello stato chimico-fisico ed ecologico dei bacini lacustri, di impoverimento e banalizzazione dell’intero ecosistema lago. Servono politiche di medio-lungo periodo, con ingenti risorse economiche e l’azione sinergica di una pluralità di soggetti per la salvaguardia delle acque destinate al consumo umano, perseguita tramite la perimetrazione delle aree di salvaguardia delle captazioni acquedottistiche, mediante studi idrogeologici finalizzati all’individuazione delle idrostrutture di alimentazione; la riduzione dei quantitativi di fosforo a azoto scaricati con le acque reflue urbane trattate; il riassetto del sistema di drenaggio delle acque meteoriche e del reticolo idrografico minore in ambiente urbano.
Se è indubbio che l’uso e il consumo di suolo, nelle loro diverse espressioni, rappresentano l’esito delle politiche di governo del territorio attuate ai diversi livelli amministratavi, è altrettanto assodato che il consumo di tale risorsa pone, oggi, questioni rilevanti e urgenti: questioni connesse alla perdita di superfici idonee alla produzione agricola, alla diminuzione dei livelli di biodiversità e di qualità paesaggistica, alla compromissione dei meccanismi che regolano i cicli biogeochimici e idrogeologici che nel suolo hanno sede, nonché alla progressiva destrutturazione della città e dei suoi valori. Questioni che una gestione del territorio efficace e sostenibile non può disattendere.
Strettamente connesso al tema del consumo di suolo è quello dell’alterazione della qualità del paesaggio. L’affermarsi dei processi di dispersione insediativa può produrre spazi indefiniti, anonimi e privi di un’identità riconoscibile; spazi dove l’omologazione e la destrutturazione dei palinsesti territoriali generano banalizzazione e inquinamento scenico-percettivo.
Dobbiamo contrastare la perdita di biodiversità in Piemonte: abbiamo 1.057 specie di piante d’altitudine; le Alpi sud-occidentali ospitano la più elevata diversità floristica e la più elevata concentrazione di specie endemiche e rare di tutto l’arco alpino. Sono risultati di ricerche coordinate dall’IPLA, un ente eccellente di ricerca regionale che – come ben sapete – non è stato trattato dalla Giunta Cota col dovuto riguardo, per essere eufemistici. Abbiamo il lupo, presente in un areale che interessa 5 province: Alessandria, Biella, Cuneo, Torino e Vercelli. La nostra fauna ittica, che assolve a importanti funzioni naturalistiche e può essere utilizzata in qualità di bioindicatore, si trova in una situazione fortemente critica: su 25 specie autoctone per il Piemonte, 6 sono a forte rischio di estinzione, 7 sono in forte riduzione, la maggior parte delle rimanenti 12 specie sono ancora ben rappresentate, ma la rapida evoluzione osservata in questi ultimi anni potrebbe porre a rischio anche queste specie.
E infine l’ambiente urbano e quindi, sostanzialmente, Torino. Dobbiamo, secondo quanto detto in precedenza, considerare la città all’interno dell’ecosistema complessivo e farcene carico come di uno dei suoi elementi fondamentali.
Le città – come saprete – ospitano oltre il 50% della popolazione mondiale, consumano il 75% dell’energia mondiale, sono responsabili dell’80% delle emissioni di CO2, producono il 75% dei rifiuti. Per questo devono diventare “smart”. Smart City è un tema di forte spinta da parte della politica europea. La viabilità e la mobilità rappresentano due degli aspetti più critici per una citta green, essendo settori di forte impatto sociale e ambientale, ma anche economico: molte sono le misure che si richiedono per migliorare il traffico, quali le limitazioni di accesso, i percorsi obbligatori e canalizzazioni, i nuovi parcheggi. Iniziative sempre più diffuse di car sharing, bike sharing e pedibus scolastici portano non solo a un risparmio, ma anche a una migliore fusione degli aspetti materiali e immateriali, della componente reale con quella sociale. Per favorire nuovi sistemi di mobilità urbana, le città devono iniziare a programmare e pianificare i trasporti in una logica di “trasporti integrati” e promuovere una nuova concezione dello spostarsi. Occorre ripensare e integrare la macro mobilità legata al trasporto collettivo e la micro mobilità del trasporto pubblico individuale, dove il car sharing e il bike sharing possono diffondersi sempre più ed essere sinergici col trasporto di tipo macro, coprendo zone meno servite e zone centrali.
La Regione Piemonte può aiutare le città piemontesi, a partire dal suo capoluogo, perché esse non siano più le smog city del secolo scorso. Promuoviamo insieme a loro biciplan, pedonalizzazioni, quartieri a velocità 30 e moderazione del traffico in tutte le vie secondarie. Ma soprattutto difendiamo il Trasporto Pubblico locale, umiliato da tagli ripetuti, e incentiviamo l’integrazione tra ferro e gomma a partire dal rilancio di Gtt e del nodo ferroviario metropolitano.
Come sapete, per SEL continua ad essere ferma la contrarietà alla Torino Lione e al Terzo Valico, e come potete immaginare il problema per noi non sta nel prendere atto dell’avanzamento dei progetti ma nell’individuare altre priorità nella mobilità pubblica collettiva.
La rete ferroviaria piemontese è estesa e capillare: si tratta di circa 2.000 km di linee che potrebbero essere decisivi nello spostare dalla gomma al ferro una grossa fetta dei trasporti di passeggeri e di merci, sia su base locale, sia su base interregionale e internazionale.
C’è molto da fare innanzitutto per migliorare le condizioni di viaggio dei pendolari, a partire dal ripristino delle 14 linee soppresse e da una manutenzione dei treni che ne garantisca il buon funzionamento e il decoro, per giungere al miglioramento dei servizi e delle condizioni delle stazioni. E poi, naturalmente, dovremo realizzare il passante ferroviario di Torino.
Insomma occorre spostare l’attenzione verso lavori di interesse diffuso e immediato, per il mantenimento, il potenziamento e la riqualificazione dei servizi e delle infrastrutture esistenti.
In ultimo, per quanto riguarda l’ambiente urbano della grande città, ma anche i piccoli centri, abbiamo ancora tanto da fare in tema di raccolta differenziata: al 2012 il superamento della quota di riferimento del 50% non è stato rispettato da Alessandria, Cuneo, Torino e Vercelli, mentre Asti e Biella raggiungono rispettivamente il 61% e il 54 %. Spiccano i comuni di Novara e Verbania che hanno superato il 70% di materiale raccolto in modo differenziato sul totale prodotto. Occorre fare di più avendo sempre in mente l’obiettivo dei “rifiuti zero”.
Come vedete, il nostro è un territorio ricco, vario, pieno di risorse, bisognoso di cura, attenzione e tutela costanti.
Noi cominceremo da qui: percorreremo il territorio piemontese alla scoperta di tutto ciò che si potrebbe migliorare e restituire ai cittadini in termini di patrimonio paesaggistico e risorse naturali, salute, qualità della vita, spazi comuni vivibili e sostenibili, servizi, beni pubblici.
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Un’ultima cosa: l’operazione San Michele è solo l’ennesima conferma del radicamento delle Mafie al nord.
Entriamo però dentro alla battaglia che dovremo fare corpo a corpo contro le organizzazioni criminali.
Servono maggiori controlli nei cantieri: significa conoscere la differenza tra la “forma” e la “sostanza” di un appalto; significa controllare anche la gestione illecita di enormi quantitativi di rifiuti “speciali”.
A tal proposito oltre al movimento terra, il fenomeno da analizzare con tutto il nostro impegno è quello delle cave che, come da sempre denunciano Libera e Legambiente, sono un elemento sensibilissimo nella filiera criminale delle mafie. Nell’ordinanza si legge dell’«l’interesse strategico del gruppo che intravedeva nella gestione della cava l’occasione per infiltrarsi nei lavori di realizzazione della linea ad alta velocità Torino – Lione c.d. Tav. Come si vedrà, infatti, le intenzioni degli indagati vertevano sull’utilizzo della cava come deposito di rifiuti speciali per le ditte “amiche” che avrebbero lavorato nella Tav nonché come luogo per la frantumazione dei rifiuti già presenti sul posto o comunque acquisiti, da reimpiegare (senza alcun controllo e bonifica, oltre che in assenza di autorizzazione) nei lavori della Tav».
Ci appelliamo al nuovo presidente Sergio Chiamparino e alla sua Giunta affinché sia sempre più alta l’attenzione sul rischio infiltrazioni mafiose e illeciti legati alle infrastrutture, in particolar modo alle grandi opere attorno a cui circolano grosse quantità di denaro.
Presidente, contiamo veramente su di lei, sulla sua capacità di compiere scelte e di raggiungere obiettivi, per aprire un dibattito e squarciare il velo sui rapporti tra mafia, politica, affari e consenso.
Presidente, Assessori, Consiglieri, diamo tutti gli strumenti possibili alla Commissione Antimafia di questa Regione affinché abbia la possibilità di liberare il nostro territorio da questi parassiti con le mani sporche di veleni e sangue.
Marco Grimaldi – Capogruppo di Sinistra Ecologia Libertà in Consiglio Regionale